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L'uomo come misura di tutte le cose, l'uomo come centro saliente di ogni pensiero e di ogni arte; ma anche l'uomo travolto dalle Moire, dalle proprie passioni. Esiste nella Grecia antica una nozione di uomo che inerisca specificamente alla natura dell'anthropos in opposizione ad altri esseri viventi e al vasto e molteplice mondo delle divinità? Da Protagora a Seneca, da Sofocle a Lucrezio, prosegue l'indagine sulla possibile definizione di una sostanza e di una qualità comune a tutti gli esseri umani. I dubbi sono molti. Ancora qualche anno fa si intravedeva un'ombra di fiducia. O almeno di speranza. Il pensiero cercava qualche appiglio, magari nella metis degli uomini tra il Prometeo di Eschilo e quello di Leopardi. Ma se fissiamo oggi l'attenzione sui problemi del nostro anthropos quotidiano, sulle risposte che sappiamo dare, non si può cancellare quello che vediamo. È un pensiero antico, già l'Odisseo di Plutarco aveva compreso che non siamo al centro del mondo, che lupi, leoni, cinghiali sono migliori di noi. Allora, come farebbero Glauco e Sarpedone nei loro discorsi dell'Iliade, proviamo a raccogliere qualche pensiero per noi stessi, per noi uomini in difficoltà. Cerchiamo di ritrovare l e virtù che ci permettano di vivere insieme, di guardare al futuro, di superare le sofferenze di cui noi stessi siamo responsabili. Certo, non c'è violenza, piaga, malattia, disperazione che possiamo evitare. È forse allora la resistenza, quella che i Greci chiamavano tlemosyne, la virtù che in qualche modo ci salva: è il coraggio di non venir meno all'ultimo desiderio, di non interrompere la ricerca, di trovare un significato diverso dalla nostra arroganza, dall'avidità, dalla violenza, dalla stoltezza, consapevoli di quello che siamo, dei nostri limiti e dei nostri vizi. Di qui ogni volta si potrà ricominciare.